Background
Il dolore muscolo-scheletrico è una condizione multifattoriale e multidimensionale alla cui base ci sono complesse interazioni tra fattori fisici, psicologici e socioculturali. Sebbene nella maggior parte dei casi si presenti per un tempo limitato, una significativa parte della popolazione sviluppa esperienza di dolore e/o disabilità a lungo termine. Una parte considerevole di ricerca ha dimostrato che le credenze rispetto al dolore muscolo-scheletrico predicono per quanto tempo l’individuo proverà dolore o sarà soggetto a disabilità. Le credenze, essendo fattori modificabili, dovrebbero essere punti cardine nella prevenzione e nel trattamento dei disturbi muscolo-scheletrici. Nonostante ciò, succede spesso che i clinici stessi instaurino e promuovano per negligenza delle credenze sbagliate o che, per scarse conoscenza ed abilità pratiche, non sappiano come intercettarle e modificarle, credendole fattori esterni al proprio scope of practice. Sembra inoltre che i clinici che instaurano queste credenze tendano oltretutto a rinforzare comportamenti inadeguati e maladattativi.
Cosa sono e come nascono le credenze?
Le credenze possono essere definite come “qualcosa che uno accetta fermamente come vero o reale”. Sebbene si tratti di qualcosa di modificabile, sono elementi difficili da identificare e targetizzare. Non sempre sono razionali e spesso possono essere contradditorie: infatti, possono permanere sebbene la persona capisca che un problema strutturale, ad esempio, è un normale effetto legato all’età, oppure alcuni in maniera contradditoria sostengono di dover rinforzare un’articolazione fragile ed al contempo di essere troppo fragili per fare esercizio. Possono essere inoltre esplicite, ovvero dichiarate apertamente dal paziente (“da anni ho paura di flettere la schiena”), oppure implicite, ovvero esistenti solo secondo associazioni automatiche presenti in memoria (“non ho paura di flettere la schiena”, ma durante l’esame fisico mette in atto strategie per non flettere la schiena e sollevare un peso).
Queste credenze possono anche essere definite “verità essenziale che governa il comportamento”. Quando una persona incorre in un’esperienza di dolore, tende a dargli un senso costruendo una rappresentazione di essa costituita da una serie di credenze rispetto alla causa del dolore, alle possibili conseguenze, come controllarlo e quanto durerà. Queste credenze vengono costruite attraverso l’esperienza diretta del soggetto, ma anche tramite quelle di conoscenti che hanno avuto un problema simile, informazioni trovate navigando su internet o da quanto ci trasmettono luoghi comuni, i media o altri clinici. Le credenze relative a questi fattori influenzano il processo di problem solving del soggetto e la conseguente risposta emotiva modificando costantemente l’atteggiamento attraverso un’interazione dinamica e continua tra fattori cognitivi, comportamentali e contestuali.
Le evidenze presenti in letteratura sono concordi nell’affermare che le credenze relative al dolore emergano precocemente nel corso della vita, influenzate dai pensieri e dai comportamenti del mondo familiare e lavorativo. Il corpo, anche per quello che sosteneva la medicina del passato, è spesso erroneamente visto come una macchina: infatti, provare dolore per la maggior parte delle persone significa che una parte della “macchina corpo umano” sia consumata o danneggiata e che necessiti di riposo o di essere “aggiustata”.
In realtà questa visione è drasticamente cambiata nel corso degli anni ed oggi possiamo affermare come il dolore sia un elemento fondamentale per la sopravvivenza. Il dolore è il sistema di allarme che ci protegge da un pericolo fisico attuale o potenziale: è il sistema che si attiva per proteggerci da una superficie bollente, da una lesione legamentosa, da una frattura ossea o da tumori. Ma questo non è l’unico modo tramite il quale si attiva questo allarme: il dolore, infatti, può presentarsi in assenza di lesione (classica nocicezione) e può perdurare oltre i tempi normali di guarigione tissutale. In questi casi il dolore non è più un segnale protettivo, ma diventa un inutile ostacolo alla ripresa delle proprie autonomie ed attività.
Numerosi studi qualitativi hanno rilevato come incontrare alcuni clinici giochi un ruolo importante nella comparsa e nel mantenimento di credenze negative rispetto al proprio dolore. Spesso i clinici consigliano di evitare delle attività provocative per prevenire potenziali danni corporei, prescrivono esercizi affermando che servono per proteggere la parte danneggiata o “incolpano” posture o movimenti di essere responsabili del dolore. Questi bias clinici hanno un impatto elevatissimo sulla prognosi del paziente e ne riducono drasticamente le possibilità di aiuto.
Che impatto hanno le credenze negative?
Le credenze negative hanno un ruolo chiave nella cronicizzazione del dolore muscolo-scheletrico. Studi prospettici hanno visto come pazienti senza dolore muscolo-scheletrico con credenze negative siano inclini a predire alti livelli di dolore e disabilità futuri.
Queste credenze possono portare ad una risposta comportamentale negativa, che trova spiegazione nel Fear Avoidance Model: quando una persona comincia a sentire dolore, può essere elicitata una risposta di paura, che comporta una risposta protettiva della zona dolente ed un processo di evitazione delle attività, dei movimenti e delle posture associate alla manifestazione del dolore che comporta una limitazione delle attività quotidiane domestiche, ricreative e lavorative. Il comportamento da evitamento per paura può essere considerato giusto da un punto di vista logico, ma è ormai evidente come questo atteggiamento porti al perpetuarsi del sintomo dolore e di disabilità correlata.
Le credenze possono inoltre comportare una risposta emotiva negativa, rappresentata da un coping inadeguato al proprio dolore, una perdita di coinvolgimento nelle attività ricreative e lavorative ed un cattivo stato di salute. I fattori emotivi, infatti, giocano un ruolo importante nella cronicizzazione di dolore e disabilità. Anche l’incapacità di dare un senso al proprio dolore può favorire una risposta emotiva negativa. Credere che provare dolore significhi avere una patologia è un ragionamento logico per il paziente, ma diventa un problema quando questa in realtà non esiste. Rompere questa credenza è difficile, perché per il paziente l’assenza di patologia quando è presente dolore significa che il dolore è psicologico, presente solo nella propria testa. Anche se legittimo ed effettivamente reale, dire al paziente che soffre di una problematica “non-specifica” tende ad aumentare in esso il livello di ansia, stress e paura.
C’è forte evidenza che i clinici frequentemente instaurino false credenze rispetto al dolore muscolo-scheletrico, dato allarmante dal momento che provenendo da una figura medica potenziano risposte emotive negative e coping inadeguato.
Processo di modifica delle credenze e del comportamento
Per capire credenze e conseguenti risposte del paziente rispetto al dolore sfruttiamo il Common Sense Model, tramite il quale il cambiamento può essere facilitato. La comunicazione centrata sulla persona è alla base di questo cambiamento, anche attraverso un utilizzo corretto della comunicazione non verbale: la persona esaminata non deve sentirsi giudicata, deve sentirsi rispettata e capita e deve entrare in empatia con il clinico, in modo da favorire l’alleanza terapeutica. La cosiddetta person-centred interview inizia con l’anamnesi iniziale e serve al clinico come guida per andare ad indagare le reazioni emotive e comportamentali del paziente. Un elemento fondamentale è approcciarsi al paziente con domande aperte (es. “Raccontami la tua storia…”), perchè facilitano l’approccio narrativo al problema, in modo da esplorarne a pieno l’esperienza, come fosse un vero e proprio viaggio visto dalla sua prospettiva.
È fondamentale poi capire quali reazioni comportamentali ed emotive ha avuto il paziente. Sarà essenziale valutare il coping, movimenti o posture evitate per paura che possano peggiorare la situazione, stile di vita (qualità del sonno, attività fisica) ed aspettative di recupero. Sono da indagare inoltre interventi pregressi falliti, attività interrotte o limitate per paura, stress psicologico (ansia, stress, depressione) ed il supporto sociale.
Valutazione del comportamento
La rappresentazione del problema del paziente e le conseguenti reazioni emotive e comportamentali non sempre riescono ad emergere dalla prima intervista con il clinico: spesso le persone affermano i propri comportamenti in seguito ad un dolore, ma non sempre esplicitano le credenze, le paure e le preoccupazioni alla base di tali comportamenti. Queste credenze implicite possono essere rilevate attraverso l’esposizione a movimenti, posture o attività durante l’esame fisico, processo essenziale per la comprensione delle reazioni emotive e comportamentali ad un problema. Questo processo è composto da alcuni passaggi chiave:
- Target: il clinico identifica tramite l’anamnesi un movimento doloroso o evitato per paura
- Domanda: il clinico indaga credenze e paure del paziente rispetto al suo problema
- Esposizione: il clinico osserva senza una valutazione l’esecuzione del movimento considerando risposte autonomiche (respiro, tensione, agitazione), smorfie legate al dolore e comportamenti protettivi.
- Riflessione: il clinico chiede al paziente se sia consapevole dell’esecuzione del movimento alterato e il motivo per il quale secondo lui adotta questo comportamento.
- Esposizione con controllo: il clinico fa ripetere il movimento chiedendo un rilassamento della muscolatura, controllo della respirazione e stimolando la calma nel paziente sfruttando strategie come cambio del setting, della posizione o utilizzando focus esterni.
- Valutazione: il clinico chiede al paziente di pensare al gesto appena compiuto e di valutare l’outcome raggiunto.
- Ripetizione dell’esposizione con controllo: il clinico fa ripetere il gesto con la stretegia di controllo adottata per rinforzare confidenza e sicurezza e per esporre gradualmente il paziente al task richiesto, considerando la capacità di carico generale e locale, il grado di irritabilità dei tessuti e la presenza di stress, ansia o paure.
Si tratta di un processo di apprendimento interattivo dove il clinico durante l’anamnesi e l’esame fisico assume il ruolo di guida nell’intento di trovare un senso al dolore attraverso un’ottica bio-psicosociale, di cambiare la risposta comportamentale e di ridurre la condizione di stress emotivo.
Tale cambiamento può avvenire solo se il paziente diventa confidente con la nuova strategia nelle attività di vita quotidiana. Per rinforzare il cambiamento il clinico deve incoraggiare il paziente ad applicare subito le nuove strategie, in modo da aumentare la propria self-efficacy, promuovere uno stile di vita sano ed attivo, coinvolgere nel percorso un supporto da parte di familiari o amici ed incentivare una corretta risposta al dolore.
Considerazioni
Esistono diversi fattori che diventano ostacoli all’implementazione di tale cambiamento, come la discordanza tra le informazioni fornite dal fisioterapista e quelle affermate da altri clinici o dalle persone vicine al paziente, che può creare confusione nel paziente, oppure a circostanze sociali che ostacolano i suggerimenti forniti dal clinico, come la mancanza di tempo da dedicare a sé stessi per fare gli esercizi prescritti. Di fondamentale importanza rimangono le modalità di approccio e di intervento sul paziente: il fisioterapista deve mostrarsi interessato, deve sapere addentrarsi nell’intimo del paziente senza essere sgarbato o invadente, deve sviluppare abilità diagnostiche e analitiche per individuare precocemente credenze e comportamenti disadattativi e per gestire al meglio gli impairments psicologici e fisici coesistenti.
Il processo di cambiamento è individuale, diverso tra persona e persona. In alcuni casi ci possono volere 4 settimane, in altri 6 mesi, in alcuni sarà facile, in altri estremamente difficile. Durante questo processo è molto probabile che avvengano dei flare-up (riacutizzazioni del dolore), che spesso comportano la riattivazione di pensieri e comportamenti disadattativi. Il fisioterapista deve essere in grado di utilizzare questi flare-up per facilitare una nuova rappresentazione, senza stress, ansia o paure e con risposte emotiva e comportamentale adeguate.
Take home message
Le credenze rispetto al dolore muscolo-scheletrico influenzano comportamenti e stati emotivi: esse però, sono modificabili e, in quanto tali, dovrebbero essere nel percorso diagnostico e terapeutico un target imprescindibile per il fisioterapista, che ha il compito di disseminare idee positive, reali ed adattative rispetto alle condizioni di dolore. Ancora oggi capita che alcuni clinici, per inesperienza, per negligenza o per inadeguata preparazione, vadano a rinforzare tali credenze, rendendo ostica la guarigione del paziente. Questo, alla luce di quanto sostiene la letteratura, non dovrebbe accadere. È quindi necessario, che i fisioterapisti vengano formati e si adoperino nella disconferma delle credenze negative, nel fornire aiuto nell’auto-riflessione da parte del paziente e che vadano a rinforzare credenze, comportamenti e stili di vita positivi ed adattativi per il proprio dolore muscolo-scheletrico.
A cura di Zucchini Andrea
Fisioterapista
Collaboratore HealtHub